La
Rivista del CAI - Marzo/Aprile 1997
UNO STRAPPO NELLA RAGNATELA
Un
disagio generale tocca
anche i "Ragni di Lecco"
Premetto - e
questa premessa e indispensabile -
che non sono coinvolta
di persona nella vicenda e che non conosco nei particolari problemi che
immagino anche dì natura personale all'interno del Gruppo. Premetto
pure che mi dispiace questo strappo, non solo perché è triste
come fatto in sè, ma anche perché conto amici dalle due parti
che si trovano contrapposte.
Ma proprio perchè si tratta di un Gruppo che ha raggiunto da
annni una grande e meritata fama nel mondo dell'alpinismo, mi pare che
la notizia dell'accaduto - cioè la contestazione della linea attuale
di gestione del Gruppo, le dimissioni di parecchi suoi soci e la stessa
pubblicizzzazione clarnorosa del fatto possa portare a considerazioni
che
vadano al di là del fatto contingente. Ritengo che questa.vicenda
non sia solo il risultato di una diatriba locale, bensì espressione
di un disagio che si percepisce in tutto 1'alpinismo europeo. Per
questo
vorrei invitare a una riflessione generale, affinché le interpretazioni
dei fatti possano essere meglio contestualizzate e possibilmente
giovino
a impostare un futuro meno conflittuale. In questa vicenda dei "Ragni"
non mi appare nulla di illecito, nulla di disonesto, e credo che ognuno
dei coinvolti possa addurre buone ragioni. Tuttavia emerge un equivoco
di fondo, che certamente ha condizionato pesantemente i tatti e che
penso
si possa riassumere come segue.
L'evoluzione dell'alpinismo di punta ha colto alla sprovvista buona
parte dei dirigenti delle grandi associazioni alpinistiche, le quali
del
resto da tempo si occupano in misura sempre minore di interessi degli
alpinisti
stessi. Ne hanno ancora necessità per la propria immagine, ma in
pratica si dedicano - e con tutti i limiti organizzativi del
volontariato
- a compiti di natura più sociale, di per sè lodevolissimi,
ma che si allontanano sempre di più dalle realtà alpinistiche.
Con i contributi che lo stato versa loro per i servizi resi alla
comunità,
come per esempio il Soccorso Alpino, aumenta la loro dipendenza da una
burocrazia estranea e si possono trovare esposti a pressioni di natura
politica. Sono invece stati trascurati gti interventi che avrebbero
potuto
designare le associazioni quali interlocutori autorevoli nel campo
dell'alpinismo
internazionale e del suo sviluppo, soprattutto nei paesi Hirnalayani.
Così
oggi mancano linee di riferimento. Nessuno riesce più a tenere una
cronaca critica ed esauriente delle imprese alpinistiche. Tramite i
mass
media, la risonanza data spesso senza verifica competente alle imprese
di pochi alpinisti sponsorizzati, di solito al di fuori delle
associazioni,
ha creato attese di spettacolarità e distorsioni etiche, non solo
fra il grande pubblico, ma anche fra gli stessi praticanti. In questo
quadro,
non c'è da meravigliarsi che nell'ambito del mondo alpinistico le
divergenze a proposito del valore delle imprese si facciano sempre più
grandi, dimostrazione di un disorientamento profondo. Chi, alpinista
singolo
o gruppo, desidera compiere un'impresa di rilievo, si trova di fronte a
scelte non facili. se si dedica a una meta poco conosciuta, di
esplorazione
e di avanguardia, verrà probabilmente ignorato dai medIa e quindi
dovrà rinunciare al successo presso il pubblico non competente,
e soprattutto non riuscirà a trovare contributi per realizzarla.
Se invece opta per una meta già nota al grande pubblico, per esempio
una cima himalayana di 8000 metri, potrà condurre più facilmente
una campagna d'informazione e ottenere contributi. Ma qui si innesca la
spirale dei problemi. Non sarà mai detto abbastanza di quanto sia
stato assurdo riservare le cime più alte del mondo a chi è
in grado di pagare tasse per concedersi la sfida di saline. Non si
sottolinea
mai abbastanza quanto poco valga la conquista di una montagna par una
classifica
sportiva quando la gara è chiusa e i concorrenti sono selezionati
in base ai soldi e agli appoggi esterni. Eppure è quello che avviene,
con le relative conseguenze: bisogna comperare i permessi, c'è chi
li compera e poi li rivende, l'organizzazione diventa semprè più
burocratizzata. In aiuto intervengono gli agenti, i quali per
raccogliere
i moltissimi soldi richiesti si danno da fare per trovare patrocini,
sponsor
e alleanze di vario tipo. Di solito, per risparmiare, gli agenti
cercano
di aggirare le disposizioni, mascherando gruppi diversi come spedizione
unica. Mi pare che a questa logica perversa non sia sfuggita nemmeno la
spedizione dei Ragni al K 2. Nel complesso, i costi così salgono
alle stelle, mentre una speditione autonoma oggi si dovrebbe poter
muovere
con quelli che vorrei definire i risparmi privati di ognuno se non
venisse
spinta verso questo gigantismo forzato e fra l'altro pregiudizievole
sotto
il profilo ambientale. A me sembra fatale che a questo punto si possa
lacerare
anche una ragnatela solida come quella dei Ragni, perchè è
logico che si possano manitestare le due tendenze contrapposte. Chi
desidera
dare lustro ufficiale al proprio gruppo, non fosse che per perpetuarne
una fama cittadina, propenderà per scelte che si possano pubblicizzate
più facilmente e accetterà i lati commerciali e le alleanze
che questo oggi purtroppo implica. Chi invece vorrebbe essere
protagonista
di imprese meno pubblicizzabili1 ma pù di avanguardia alpinistica,
si sentirà allora tradito nelle sue aspirazioni sportive, forse
pure nell'intimo della sua passione e delle sue amicizie, perché
intendeva il Gruppo anche come appoggio per praticare e sviluppare un'
attività di punta più originale. Si sentirà incompreso,
nutrirà risentimenti. Tutte le alleanze per scopi non puranente
alpinistici gli appariranno struirtentali e infelici, e
magari compirà
ingenui passi falsi per cercare di farsi capire.
A Lecco una contrapposizione di questo tipo è esplosa con durezza,
sintomo del alessere legato all'attuale perodo di transizione verso
nuovi
modelli possibili di alpinismo. Ma non si tratta di un problema solo
lecchese:
basti pensare al polverone creatosi adesso in Francia a proposito di
una
mega-spedizione all' Everest, destinata in realtà alla penetrazione
commerciale francese in cina, che divide gli animi degli alpinisti e
che
comunque ha visto anche le giovani guide alpine appena diplomate
all'ENSA
schierarsi compatte contro questa spedizione. Non credo che esista una
bacchetta magica per rattoppare la ragnatela, a parte la necessaria
disponibilità
a comprendere anche le ragioni altrui. Ma forse chi oggi si trova su
una
linea perdente, individuale o di gruppo, potrebbe cogliere l'occasione
per potenziare un alpinismo originale in forna autonoma, senza cercare
finanziarnenti che lo condizionino troppo, evitando dipendenze che
moralmente
non ritiene accettabili. Credo che fra non molto questo nuovo tipo di
alpinismo,
già diffuso ma ancora "sommerso", emergerà naturalmente, per il beneficio di chi lo pratica, di chi lo segue anche
a livelli più modesti, perché riporterà alla luce valori non monetizzabili e non strumentalizzati. Indizi di sviluppi
in questa direzione si possono già cogliere nei riflessi culturali della pratica alpinistica, in particolare nei film, che non
premianoi più certi tipi di imprese. Sarà poi un gradito
compito dei protagonisti e dei media offrire anche al grande pubblico
questi
valori diversi aff inché possa orientarsi concretamente nelle proprie
simpatie e nei propri giudizi. Dopo tutto1a delusione e disincanto
possono
anche essere il motore di azioni volte a prospettive nuove, di alto
livello
e di profonde soddistazioni: certo, gli sforzi in questo caso non li
paga
nessuno al di fuori di noi stessi. L'alpinismo può essere una sfida
anche sotto questo aspetto e c'è ancora tanto da scoprire e da fare
al di fuori delle vie battute, alla ricerca di un nuovo filo
conduttore.
E non è detto che non si tratti di un filo per una bella ragnatela
nuova.
Silvia Metzeltin
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